Al di sopra della legge. Come la mafia comanda dal carcere” (edizioni Solferino, 2022), scritto da Sebastiano Ardita, costituisce un prezioso documento per comprendere a fondo il funzionamento del sistema carcerario italiano e le linee evolutive (o, alle volte, involutive) che attraversano il nostro ordinamento sul fronte della lotta alle organizzazioni mafiose. L’autore è un magistrato di chiara fama originario di Catania, già direttore dell’Ufficio Detenuti del DAP, nonché ex consulente della Commissione parlamentare antimafia, ora in forza presso il Consiglio Superiore della Magistratura.
Ardita è stato protagonista di un convegno promosso dall’Associazione culturale “Città Invisibili” lo scorso 14 luglio, nel giardino di Villa Vaccarino a Milazzo, dove ha dialogato conSanto Laganà, presidente dell’associazione, e col vicepresidente Alessio Pracanica.
In esordio, il sindaco di Milazzo, Pippo Midili, ha evidenziato legrandi potenzialità di questo tipo di incontri, fondamentali per lo sviluppo di una sana cultura civica, strumento indispensabile per la prevenzione e il contrasto al fenomeno mafioso.
Tra i tanti nodi del sistema penitenziario, particolare rilievo assume la vicenda del 41 bis, di cui oggi, da più parti, si invoca un ridimensionamento; nonché il tema dell’ergastolo ostativo, anch’esso al centro di un travagliato dibattito. Il 41 bis, varato nel 1986, venne inasprito su impulso di Giovanni Falcone – racconta l’autore –, ma le modifiche da lui proposte trovarono accoglimento solo dopo la sua morte, quando il governo varò un decreto-legge,poi convertito dal Parlamento il 7 agosto 1992 (con l’uccisione diPaolo Borsellino si ruppero gli indugi del legislatore). Una norma dal “vissuto” complesso, di cui Ardita spiega le novità introdotte negli anni ’90: “Non era previsto che si dovesse stare in isolamento assoluto, né venivano imposte sofferenze fini a sestesse, perché ciò sarebbe stato contro i principi fondamentali che tutelano i diritti dell’uomo. La permanenza in cella singola non voleva dire emarginazione, e anzi era previsto che si dovesse stare con altri detenuti per quattro ore al giorno. Solo che il numero delle persone con cui socializzare è limitato a quattro, tutte le comunicazioni con l’esterno sono ridotte al minimo e filtrate; e le stesse persone con le quali convive chi è sottoposto al 41 bis sono a loro volta scelte con cura e controllate” si legge alle pagine 36 e 37 del suo libro.
Egli mette in guardia contro i tentativi di ammorbidire la legislazione antimafia, senza negare tuttavia le possibilità di recupero per i boss detenuti, a patto, però, che sia mantenuta una condizione necessaria per accedere ai benefici di legge: l’effettiva collaborazione del mafioso con la Giustizia. A tal proposito, particolarmente suggestivo appare il concetto di “integrità nel male”, una speciale attitudine dei mafiosi che, spesso, li rendeimpermeabili ad una scelta di vita diversa.
“Un boss che inizia e finisce i suoi giorni in carcere e affronta la detenzione fino alla morte – scrive ancora Ardita – dimostra dedizione a Cosa Nostra e realizza una simbologia, che risulta trainante fino all’idolatria, del suo potere mafioso. E anche per questo sarebbe importante che collaborasse, affinché quella propaganda del male venisse meno. Ma non è facile. […] E anche una mossa repressiva sbagliata può moltiplicare la forza del nemico. E’ una guerra in cui mentre reprimi ti devi preoccupare delle ragioni da cui origina il male; in cui anche la simbologia ha un suo valore: non devi fare un passo indietro, ma neppure puoi giocare forzando gli strumenti”.
Il relatore sottolinea la valenza di un approccio verso la mafia in grado di coniugare, accanto all’elemento repressivo, un impegno dei magistrati stessi in veste di privati cittadini (“uomini e consociati”), attraverso iniziative di aiuto e sensibilizzazione nei vari contesti sociali ove il male alligna più facilmente. Tale è l’auspicio con cui si conclude il libro: “Dobbiamo farlo per una società che ne ha bisogno e farlo per noi stessi, perché questo è l’unico modo per trasmettere cosa realmente abbiamo nel cuore. L’unica via per spiegare a chi vede solo il braccio irruente della legge che l’origine della legge è nel rispetto degli esseri umani”.
Francesco D’Amico